More & More Rick Owens
A quasi 30 anni dal lancio del suo marchio, lo stilista americano si tuffa nella sua storia con un nuovo libro: “More Rick Owens” edito da Rizzoli.
“More Rick Owens” (Rizzoli), secondo libro dello stilista, ne racconta l’evoluzione recente, a partire dalla collezione F/W 2019 ispirata agli anni ’70, che ha reso omaggio allo stilista Larry LeGaspi, che ha guidato lo stile glam-rock di quel decennio, vestendo i Kiss, Grace Jones etc. Da lì, il successo di Rick Owens non ha fatto che crescere, trovando nuovi modi per provocare il mondo della moda e allo stesso tempo attingere alle culture giovanili di oggi. In vista del lancio del libro, illustrato dalla fotografa Danielle Levitt, Owens ha raccontato a L’OFFICIEL, dal del suo appartamento parigino, il suo processo creativo e l’eredità che ha creato in quasi tre decenni.
L’OFFICIEL: Mentre lavoravi al libro, hai notato qualche cambiamento nel tuo processo creativo rispetto agli esordi?
RICK OWENS: Non credo. Forse tra 10 anni, ripensandoci, mi accorgerò di qualche pattern o variazione, ma il più delle volte si tratta di un processo continuativo, in cui ogni collezione è un’evoluzione di quella precedente. Perciò non vedo cali e picchi. Sono solo in testa al treno e vedo la velocità. Ma non mi lamento affatto del ritmo della moda, perché lo amo. Non vorrei che fosse più lento perché mi dà un grande senso di scopo e mantiene un ritmo nella mia vita. Avere delle scadenze è come i compleanni e gli anniversari: segnano il tempo. Il periodo che intercorre tra una sfilata e l’altra è un po’ come un puzzle, perché ho una certa quantità di risorse, una certa quantità di tempo e un certo budget, e devo usare queste risorse nel modo più intelligente possibile per realizzare qualcosa di avvincente. Se avessi tutto il tempo e i soldi del mondo sarebbe difficile concentrarsi. Quindi è bello avere quei parametri e quei confini per mantenermi in linea.
LO: Hai detto che ogni collezione è un’evoluzione di quella precedente. Come si fa a prendere una collezione e a scrivere il capitolo successivo?
RO: Se conoscessi la ricetta, la venderei e forse farei più soldi di quanti ne faccio ora. Gli abiti stessi sono una forma di comunicazione così forte, il primo modo di comunicazione quando ci confrontiamo con qualcuno. I vestiti e gli ornamenti personali sono stati usati come comunicazione fin dall’inizio dei tempi per indicare il nostro legame con l’umanità, o il potere, lo status, per dire agli altri chi siamo o chi vogliamo essere. A questo si aggiunge il mio ruolo di creatore. Come uno scrittore o un artista, si crea un mezzo per comunicare. Quindi comunico per comunicare, e la comunicazione è lo scopo della vita. È ciò di cui tutti abbiamo più bisogno. È ciò che siamo qui per fare. Vogliamo comunicare con i nostri cari, vogliamo comunicare con le altre persone. Vogliamo essere ascoltati dalle persone che ci circondano, dai nostri figli. È questo che desideriamo maggiormente, fino alla morte. Quindi, per quello che sono, credo di aver avuto più di quello che avrei mai pensato di avere. Sento di essere stato ascoltato in modo grande e profondo. E forse non sto andando da nessuna parte con questo, ma era un’osservazione.
LO: Cosa cerchi di comunicare con il tuo lavoro?
RO: Volevo reagire al bigottismo. Lo possiamo vedere online; possiamo vedere giudizi, giudizi moralistici. Sono cose che ho affrontato spesso quando ero giovane, e mi hanno sempre dato molto fastidio. Bisogna essere in grado di promuovere altre opzioni nel mondo, gli standard di bellezza possono essere molto rigidi e anche crudeli perché non molte persone li possono raggiungere. Perciò ho voluto proporre un’alternativa: un mondo in cui ci siano altri valori, non la promozione di cliché o l’invidia e gli status symbol. La cosa buffa è che ho fatto un lavoro così buono che ho creato una cosa che è diventata un ostacolo per molte persone. Molte persone vedono la creazione di Rick Owens e dicono: “Oh, è troppo per me. Non mi sarà mai permesso entrarci”, mentre in origine l’intento era quello di creare l’esatto contrario. È inevitabile, credo. Ogni impulso utopico finisce per corrompersi in qualche modo, ed è così che funziona la vita. Il mio desiderio più grande è sempre stato celebrare il freak che c’è in ognuno di noi e liberarlo. Da bambino, nella mia città in California, nel seminterrato di un grande magazzino c’era una svendita e quella fu la prima volta che vidi la copertina di “Diamond Dogs” di David Bowie. Eravamo negli anni ’70. Vidi questa copertina e mi rese nervoso perché schiacciava tutti i tasti di quello che avevo sempre desiderato. C’era il glamour, ma era un glamour un po’ squallido. C’erano omoerotismo e ambiguità sessuale, e io ne ero disturbato, ma era così liberatorio. È questo che mi piacerebbe fare. Mi piacerebbe liberare le persone dalla sensazione di doversi conformare a certi standard. Questo è sempre stato il mio obiettivo: farlo in modo convincente e sofisticato.
LO: Questa idea di libertà e di liberazione delle persone è qualcosa che applichi nella moda, ma anche in altri tuoi lavori visivi come l’arte o il design. Hai creato il tuo universo Rick Owens.
RO: Beh, non ho ancora fatto profumi o makeup…
LO: Ti piacerebbe farlo?
RO: Sarebbe bello. Ma è un mondo difficile in cui entrare perché ci sono molte restrizioni. E se non si ha successo la prima volta, può danneggiarti molto. E ci sono tanti altri fattori. Bisogna unirsi a partner potenti perché la concorrenza è spietata. Ma è un capriccio. Non è un mio sogno entrare nel mondo dei profumi e del trucco, perché forse non appartengo a quel mondo. E va bene così, perché comunque ho una vita così bella. Non ho bisogno di spingermi in un’arena a cui non appartengo, perché le mie idee non sarebbero così popolari come devono essere per competere in quel mondo. La bellezza è diversa dalla moda. È più difficile. È più ristretta. Ho pensato che non mi piace molto viaggiare, perché lo sforzo di viaggiare è maggiore di quanto vale arrivare. Vivo a Parigi e a Venezia e sono così magiche. Sento che potrei passare il resto della mia vita a esplorarle senza dover passare tempo negli aeroporti. Il problema degli aeroporti è che sei costretto a passare attraverso i negozi duty-free che ti assalgono con un tipo molto specifico di standard di bellezza, di sistema di valori aspirazionali, di sessualità e di immagine del corpo. E questo mi infastidisce. Accade in tutto il mondo. Non sono i grandi marchi a imporcelo: è quello che vogliono i consumatori. Questo è ciò che vuole il mondo. Sono gli standard su cui tutti si sono accordati, e sono molto rigidi. Così mi viene in mente che devo dare alla gente qualcos’altro.
«Mi piacerebbe liberare le persone dalla sensazione di doversi conformare a determinati standard».
LO: Hai un legame profondo con Venezia, anche se non è una scelta ovvia di residenza per un designer. Che cosa ti attira della città?
RO: La praticità. Si trova a due ore dall’azienda produttrice, e sono finito lì non perché l’abbia scelta io, ma perché sono stato scelto. Agli inizi, cercavo di dare in licenza la mia collezione, e ho girato per diverse aziende, e questa è l’unica che ha accettato. Sono cresciuto lì. Alla fine, quando siamo diventati abbastanza grandi, l’ho comprata. Venezia era il luogo magico più vicino. La città ha sempre esercitato un grande fascino su di me. È la città più improbabile e impraticabile che esista, e questo me la fa amare, perché infrange tutte le regole. C’è una stravaganza e una follia che adoro. Ma non solo è magica, è anche un centro d’arte. Con la Biennale e i musei che vi sono, è un luogo importante per l’arte contemporanea.
LO: Qual è il tuo rapporto con l'arte?
RO: Sono un appassionato. Non un intenditore, ma è la cosa più vicina alla spiritualità che conosco nella vita quotidiana. Vivo in Place de la Concorde a Parigi. Posso attraversare il Giardino delle Tuileries e andare al Louvre e questo fa parte della mia giornata. Mi piace avere accesso a una grande cattedrale dell’arte. Quando si va al Louvre, c’è tutto. C’è la vita, la morte, la lussuria, la corruzione, la guerra, il sangue, tutta l’arte che è stata rubata ad altre persone e la lussuria delle cose che sono state ritratte e che sono avvenute dietro le quinte. È un’orgia carnale e questo mi piace molto. È così sofisticato, ma allo stesso tempo così primitivo. Questa è l’arte antica, ma poi c’è l’arte contemporanea, che è nuova vita e nuovi impulsi, nuove ambizioni ed emozioni. È affascinante.
LO: Molti dei tuoi lavori traggono ispirazione dal passato e presentano una prospettiva completamente nuova. Come ti avvicini a un’idea e la trasformi in una collezione?
RO: Dietro a ogni collezione, ci sono tutte le ansie, le euforie e le tribolazioni che tutti noi stiamo attraversando. La gente dice che i miei abiti sono scuri. Io penso: “Come puoi non riconoscere il mondo reale?” Ci sono stilisti che sono ignari e che presentano un’evasione totale alla Disneyland. E va bene. Se le persone lo desiderano, è una scelta valida. Non la escludo, ma preferisco qualcosa di più onesto. Quando parlo di pulsioni primarie, si tratta di pulsioni che tutti noi condividiamo, e tenerne conto quando presento o creo qualcosa è l’elaborazione più onesta che posso fare. Osservare il mondo che ci circonda e i suoi alti e bassi.
LO: Il tuo lavoro è stato spesso definito provocatorio da chi si occupa di moda. È una cosa che viene anche dall'istinto?
RO: Metto in scena ciò che voglio vedere. Voglio essere scioccato. Voglio essere sorpreso. Voglio essere provocato. Voglio essere stimolato. Voglio vedere qualcosa che spinga le cose. È questo che voglio vedere. Quindi faccio solo cose che voglio vedere.
LO: Nelle collezioni precedenti ci sono stati riferimenti all'Egitto, agli anni ’70 e ad altri periodi storici. In che modo il passato ti ispira?
RO: Vivo nel passato. Credo sia perché mi piace vedere cosa succede dal punto A al punto B. Per esempio, gli artisti. Preferisco gli artisti morti perché mi piace vedere come sono stati coerenti, come si è evoluta la loro storia dall’inizio alla fine. Con i nuovi artisti, non riesco ancora a vedere il quadro completo. Potrebbero cambiare. Potrebbero prendere una direzione strana o qualcosa del genere. Non posso davvero impegnarmi, ma ci sono abbastanza esempi di vecchi artisti morti che hanno creato un monumento convincente, e sono quelli a cui guardo perché voglio vedere come hanno fatto. Leggo le biografie di artisti e creatori perché sono curioso e probabilmente rassicurato da quanto erano disordinati. Mi piace osservare come si realizza un monumento estetico perché è quello che vorrei fare io.
LO: I designer che ti interessano di più?
RO: Beh, copio Vionnet. Vionnet e Madame Grès; le ho studiate molto e sono quelle che mi hanno influenzato di più. E mi piacevano Paul Poiret e Zoran. Non so se vi ricordate di Zoran. Doveva essere molto forte per rimanere fedele alle sue convinzioni.
«Vogliamo essere ascoltati dalle persone che ci circondano, dai nostri figli. E questo è ciò che desideriamo di più, fino alla morte. Quindi, per quello che sono, credo di aver avuto più di quello che avrei mai pensato di avere. Sento di essere stato ascoltato in modo grande e profondo».
LO: Guardando alla tua carriera, qual è il momento che consideri più importante?
RO: Il più importante è stato quando ho incontrato i miei partner italiani, che mi hanno trovato a Los Angeles e hanno accettato di assumermi. Elsa (Lanzo) e Luca (Ruggeri) lavoravano per Eo Bocci, ma volevano mettersi in proprio e hanno iniziato con me. Avevano tanto da dimostrare quanto me. Avevano la mia stessa ambizione e la mia stessa dedizione. La creatività è il 10% dell’equazione, ma metterla in atto e proteggerla è fondamentale. Ci sono molte persone creative al mondo, ma senza la giusta esecuzione non si può fare nulla.
LO: E la sfida più grande?
RO: Credo sia stato iniziare a sfilare, perché non ci avevo mai pensato. Avevo sempre venduto direttamente ai negozi. Venendo da Los Angeles, non ero mai stato a uno show. Poi Vogue America mi ha contattato e mi ha offerto di sponsorizzare una sfilata. Una cosa enorme, ma ero preoccupato perché sapevo che la mia estetica era molto soft e che forse non avrebbe avuto un impatto sufficiente per le passerelle. La prima sfilata sarebbe stata bella, ma se non fosse cambiata o evoluta, non sarei stato abbastanza interessante per continuare. Questo era preoccupante, non faceva parte della mia personalità, essere un’artista. Non l’avevo mai preso in considerazione. Comunque ho pensato: “Beh, devo farlo”. Così l’ho fatto. All’inizio non ero un granché. Avevo molto da imparare e avrei potuto rovinare tutto. Avrei potuto migliorare o peggiorare, per fortuna sono migliorato. La cosa divertente è che gradualmente ho iniziato a imparare e a capire come fare, poi, all’improvviso, mi sono trovato a mettere in scena questi spettacoli e ho iniziato a divertirmi davvero. Ma mi ci è voluto un po’.
Tutte le immagini sono courtesy of OWENSCORP, foto Danielle Levitt