The Now Icon: Édgar Ramírez
E' stato Ciro Redondo Garcia in “Che. L’Argentino” di Soderbergh, è diventato famoso e ha ricevuto la prima nomination ai Golden Globes ‒ come il terrorista Carlos nell’omonima serie di Olivier Assayas, era nel cast di “Zero Dark Thirty”. È stato Bodhi nell’insopportabile remake di “Point Break”, poi l’ex marito supportivo di Jennifer Lawrence in “Joy” di David O.Russell e Gianni Versace nella serie “American Crime Story: The Assassination of Gianni Versace”, per cui ha ricevuto una seconda nomination ai Golden Globes. Édgar Ramírez, venezuelano, quarantatre anni, segno zodiacale Ariete, da bambino pensava di fare il diplomatico, invece è stato per tre anni giornalista; è Goodwill ambassador dell’UNICEF e si è impegnato a favore di Amnesty International come dell’uguaglianza di genere, promuovendo il programma #heforshe.
Come sei diventato attore?
Facevo il giornalista, il cinema mi piaceva da sempre ma non sono cresciuto sognando di recitare. All’ultimo anno di università ho partecipato a un film sperimentale di un amico che ha finito per vincere un festival: tra i giurati c’era un professore messicano, l’allora sconosciuto Guillermo Arriaga, che mi propose di partecipare a un film di cui stava scrivendo la sceneggiatura. Io dissi di no per scoprire due anni dopo che il film in questione era “Amores Perros”, la pellicola del 2000 di Alejandro González Iñárritu, che aveva fatto sensazione a Cannes vincendo il gran premio della critica. Praticamente, il film che ha introdotto il cinema latino sulla mappa internazionale.
Quali sono stati i ruoli fondamentali della tua carriera?
Ovviamente “Carlos”, nel 2010 si era all’inizio dell’era delle serie televisive di alta qualità, che ti consentono di esplorare un personaggio in modo più compiuto di quello che ti permette la breve durata di un film. Poi “Hands of Stone”, dove sono dovuto diventare un pugile (la leggenda Roberto Durán, nda): il mio corpo è cambiato, e mi sono trasferito a Panama. E per me, che sono al tempo stesso molto emozionale e molto razionale, interpretare un uomo totalmente dominato dalle sue emozioni è stato molto challenging. Ed è stato interessante esplorare un disruptor come Gianni Versace nell’intreccio dei suoi rapporti familiari, soprattutto nel rapporto con la sorella, fatto di lealtà, amore, devozione. Ho scoperto Gianni negli occhi di Donatella e di Penélope Cruz che la interpretava. E sono molto legato anche a un film che ho girato con Juliette Binoche, “A coeur ouvert” di Marion Lane, storia di una coppia sposata dove lui - io - è alcolizzato: un rapporto di codipendenza che esplora la natura dell’amore.
Come scegli un film?
Il regista è fondamentale: se non ha un punto di vista molto preciso, molto forte, il film non funziona. Perché l’arte di raccontare una storia deriva da un’urgenza emozionale che devi risolvere razionalmente. Poi certo, importante è anche la storia, anche se a volte scelgo semplicemente di divertirmi con film d’azione.
Con quali registi hai lavorato meglio? E con chi sogneresti di lavorare?
Con Assayas c’è un rapporto molto speciale, una vera e propria telepatia. Mi piacerebbe lavorare con Paolo Sorrentino, con David Fincher, Wong Kar Wai, il regista messicano Michel Franco che ha appena vinto il Leone d’Argento a Venezia con “Nuevo Orden”, Alfonso Cuarón... Tanti, tanti altri.
Mai pensato di fare il regista?
Potrebbe succedere che diventi regista, ma non mi alzo la mattina sentendomi male perché non lo sono. Ho invece iniziato a fare il produttore perché è una direzione naturale per un attore.
Hai un metodo per calarti in un personaggio?
Recitare è empatia e anche una forma di meta-giornalismo, prepararsi a un ruolo è come svolgere un’indagine su qualcuno. E poi c’è la preparazione fisica: costruire il corpo del personaggio ti permette di trascendere i tuoi limiti personali.
Che film hai in uscita?
A fine ottobre inizia la programmazione di “The Undoing”, serie HBO (scritta da David E. Kelley, l’autore di “Big Little Lies”, nda) per la regia di Susanne Bier, con Nicole Kidman e Hugh Grant, dove io interpreto un detective. È la storia di una caduta individuale, un dramma per adulti come i grandi thriller degli anni ’80 e ’90 con una carica erotica molto forte, in maniera atipica per un progetto americano. Il punto centrale sono le contraddizioni umane, tutti i personaggi sono contraddittori, è l’investigazione di un tradimento che dimostra il potere della manipolazione, della gelosia, decisamente non confortevole per lo spettatore. L’anno prossimo usciranno “355”, una spy story con Jessica Chastain (e Bing Bing Fan, Diane Kruger, Lupita Nyong’o e Penélope Cruz, nda), la commedia “Yes day” con Jennifer Garner, “Jungle Cruise” della Disney con Emily Blunt e Dwayne Johnson “The Rock” . E girerò “Losing Clementine” con Jessica Chastain, diretto dalla regista argentina Lucia Puenzo. Jessica interpreta un personaggio bipolare deciso a suicidarsi ma che vuole prima sistemare alcune cose, tra cui il rapporto con l’ex marito, che sono io...
Sei particolarmente impegnato sull’uguaglianza di genere.
La campagna #heforshe è nata per combattere gli stereotipi di genere: non è solo a favore delle donne. Bisogna cambiare il paradigma culturale che celebra una mascolinità tossica, che spinge gli uomini a scaricare la loro violenza sulle compagne, invece di imparare a gestire le proprie emozioni. Il discorso che ho tenuto in proposito quattro anni fa alle Nazioni Unite è il momento della mia vita di cui sono più orgoglioso.
Cosa fai quando non lavori?
Leggo, mi alleno, cerco di meditare: non ho una vita straordinaria, ma un lavoro straordinario. Mi piace bere un caffè con gli amici, credo che la conversazione sia una forma d’arte. Quando arrivo in una città che non conosco invece di fare il turista mi faccio consigliare su dove fermarmi a bere un caffè, e posso passare ore seduto a leggere o osservare la gente. Sono drogato di caffè, in Venezuela la comunità italiana è così forte che c’è una macchina espresso Gaia anche nel più piccolo baretto del più sperduto paesino.
Ti interessa la moda?
Mi piace la moda perché mi piace la storia, e la moda è espressione del tempo. Tra cinquant’anni anni basterà osservare i nostri vestiti per rendersi conto di come era la nostra società. Non credo che la moda sia un fenomeno superficiale, piuttosto è una forma di antropologia.
Photographer Jacques Burga
Stylist Dani Michelle
Grooming Sascha Breuer @ The Wall Group
Production: M Studio Paris
Photographer Assistant: Noah Raymond
Stylist Assistant Cameron Quittner
Location The Garcia House - John Mcllwee and Bill Damaschke, Los Angeles
Special thanks Adrien Wulf, Giampiero Tagliaferri, Xarles Thompson, Roger Benites, Megan Moss, Tori Kob, John Mcllwee and Bill Damaschke