Provate a chiedervi: "Chi fa i miei vestiti?"


La richiesta di una maggiore trasparenza alla filiera, la voglia di avere una consapevolezza totale su chi e come produce i vestiti che indossiamo tutti i giorni, il conoscere l&#39;impatto globale della moda, tra le industrie pi&ugrave; inquinanti del mondo e seconda solo a quella petrolifera. La moda etica &egrave; un cavallo di battaglia che stanno portando avanti diversi brand da diversi anni. A essere la capofila &egrave; Stella McCartney, da sempre in prima linea nella lotta per l&#39;ambiente e per gli animali. Tanto che, in occasione della presentazione della collezione Resort Primavera Estate 2018, ha annunciato di voler fare molto di pi&ugrave;: insieme alla Ong Parley for the Oceans dar&agrave; vita a delle creazioni che mettono al primo posto la salute degli oceani. E a dimostrare la crescente attenzione dell&#39;industria su questo tema ci ha pensato il Green Carpet Fashion Awards lo scorso settembre 2017, i primi veri Oscar della moda sostenibile: ci sar&agrave; una seconda edizione, quest&#39;anno, e si spera che in futuro ce ne saranno molte altre. Sicuramente stiamo parlando di un cambiamento pi&ugrave; che positivo nella moda che vira non solo verso un nuovo modello economico, ma soprattutto in una direzione contro i vestiti usa e getta, cos&igrave; tossici per l&#39;ambiente, ma anche per l&#39;uomo.&nbsp; 
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Ogni volta che si sta per acquistare un vestito, dovremmo chiederci chi &egrave; che l&#39;ha fatto. Perch&eacute; no, non si tratta di entit&agrave; astratte, ma di persone tali e quali a noi, i consumatori finali. La verit&agrave; &egrave; che chi confeziona gli abiti, molte volte e molto pi&ugrave; spesso di quanto si possa pensare, lavora in condizioni disastrose. Non &egrave; difficile ricordare la strage di Rana Plaza a Dhaka, in Bangladesh: a fine a prile 2013, il polo produttivo tessile &egrave; crollato uccidendo pi&ugrave; di 1130 operai e ferendo oltre 2500 persone. Vite spezzate, ma per cosa? Uno stipendio mensile da 44 sterline, in poche parole una miseria. Le condizioni di lavoro per chi crea la moda, in diversi Paesi, sono infatti gravissime. Si pensi che in Cina, nel Guandong, le operaie fanno oltre 150 ore di straordinari al mese, la maggior parte senza un contratto regolare e la quasi totalit&agrave; senza assicurazione sanitaria. Ma la questione ambientale non &egrave; meno importante, anzi, si pu&ograve; dire che vada di pari passo con quella umanitaria: quanti litri di acqua servono per creare una maglietta di cotone? 3.000. Senza pensare alla quantit&agrave; di abiti che vengono buttati via ogni anno: si parla di 73 milioni di tonnellate.&nbsp; 
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Cosa fare, allora? Di certo il ruolo chiave ce l&#39;hanno i big del settore, ma anche noi possiamo fare parecchio nel nostro piccolo. E se i millennials sembrano essere gi&agrave; molto sensibili e attivi sul tema, ci&ograve; che possiamo attuare tutti i giorni &egrave; il rivalutare le produzioni locali piuttosto che andare sempre nel solito fast fashion (vestendoci tutti, irrimediabilmente, uguali), ma anche, perch&eacute; no, ritrovare il piacere di farsi fare un abito su misura. Less is more, e anche in questo caso Coco aveva ragione, perch&eacute; &egrave; molto meglio comprare un solo capo di qualit&agrave; piuttosto che l&#39;acquisto compulsivo di decine di abiti che la prossima stagione saranno da buttare. Ma soprattutto, ci&ograve; che si deve fare &egrave; informarsi, per bene. Solo cos&igrave; possiamo essere consumatori consapevoli e non l&#39;ennesimo ingranaggio di un sistema tossico, sia dal punto di vista umano che ecologico.

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