L’artista thailandese parla del suo rapporto molto personale con la storia. La sua e quella del secolo, che è diventata materia della sua opera 

Arin Rungjang ci accoglie nel suo appartamento berlinese. Su invito della DAAD (un&rsquo;importante istituzione che organizza scambi universitari e offre borse agli artisti), l&rsquo;artista 44enne &egrave; protagonista di una residenza artistica di un anno in citt&agrave;. Sta preparando una mostra personale che si svolger&agrave; a Singapore ad agosto, nel polo artistico Gillman Barracks, e a novembre parteciper&agrave; alla Biennale di Toronto.&nbsp;

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Dove trovavi l&rsquo;ispirazione durante gli anni della tua formazione?&nbsp;

In origine, la Thailandia dipendeva dall&rsquo;agricoltura. Nel 1932, quando cambi&ograve; il sistema politico, optando per una monarchia costituzionale al posto di una monarchia assoluta, il primo ministro decise di obbligare gli uomini a portare il cappello, in modo che avessero un&rsquo;aria inglese, e a mangiare uova per aumentare la propria massa muscolare! &Egrave; assurdo, non ti pare? Mia madre appartiene alla prima generazione nata in quest&rsquo;epoca, ma si &egrave; sempre sentita legata all&rsquo;epoca dei battelli che navigavano nei canali e dei bufali nelle risaie. &Egrave; importante che tu capisca il paesaggio della mia giovinezza. La scuola d&rsquo;arte in cui seguivo i miei corsi aveva la reputazione di essere tradizionale. La generazione dei miei insegnanti era la prima ad aver avuto la possibilit&agrave; di studiare all&rsquo;estero. La gente tornava con storie leggendarie. Esattamente come succedeva quando gli abitanti dei villaggi tornavano dalla foresta e affermavano di aver ucciso una tigre. E tutto il villaggio ci credeva. Uno dei professori and&ograve; a D&uuml;sseldorf: al suo ritorno ci parl&ograve; di Joseph Beuys. Non c&rsquo;era l&rsquo;Internet all&rsquo;epoca, non avevamo altra scelta che credergli. E ne abbiamo tratto le (nostre) conseguenze. Capisci cosa voglio dire?.

In questo momento stai lavorando alle opere destinate a &ldquo;Spectrosynthesis II&rdquo;, la seconda manifestazione pi&ugrave; importante dell&rsquo;Asia dedicata all&rsquo;arte LGBT. Fino a oggi, la tua sessualit&agrave; non era mai stata al centro del tuo percorso.&nbsp;

Non mi sembrava necessario. Mi sentivo a mio agio con quello che ero. Quando ho ricevuto l&rsquo;invito a partecipare a questa manifestazione, ho cominciato a riflettere sulla mia infanzia, sulle difficolt&agrave; che ho incontrato in quanto omosessuale. Ho capito che era importante non tanto condividere i miei problemi privati quanto mettere in luce dei punti in comune con paradigmi pi&ugrave; generali. Tra i miei amici sono stato il pi&ugrave; fortunato: molti hanno avuto grosse difficolt&agrave; di inserimento, altri sono morti di AIDS.&nbsp;

C&rsquo;&egrave; stato un momento in cui hai sentito che la tua vita professionale doveva prendere un&rsquo;altra direzione?&nbsp;

Il &ldquo;Rwanda Project&rdquo;, un&rsquo;installazione che ho realizzato per la Biennale di Sidney nel 2012, ha avuto un grande impatto su di me. Ho lavorato con 13 orfani i cui genitori erano rimasti uccisi nel genocidio. Avendo perduto anch&rsquo;io mio padre, mi sentivo molto vicino a loro. Non soltanto ho imparato molto dalle loro testimonianze, ma mi sentivo umanamente legato a loro attraverso il&nbsp;lavoro svolto.

Foto: Dennis Schoenberg. 
Styling: Bodo Ernle. 
Grooming: Kenny Campbell.

#Art: intervista a Arin Rungjang

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