Un dialogo con il presidente 
della Biennale sulla 56ª Esposizione internazionale d’arte di Venezia

L&rsquo;Officiel Italia: Nel 2015 la Biennale di Venezia ha celebrato il suo 120&deg; compleanno dalla Prima Esposizione (1895) ed &egrave; simbolico l&rsquo;aver scelto di soffermarsi sull&rsquo;immagine dell&rsquo;&ldquo;Angelus Novus&rdquo; di Paul Klee. &Egrave; come se si disegnasse nel tempo una linea di congiunzione della memoria tessuta nei luoghi che ancora hanno ospitato&nbsp;la 56&ordf; Esposizione Internazionale d&rsquo;Arte. In che modo la 56a Biennale desidera celebrare i suoi primi 120 anni di storia?&nbsp; 
Paolo Baratta: &laquo;Proseguendo nella sua instancabile ricerca. Il riferimento alla storia che aleggia sull&rsquo;Esposizione del 2015&nbsp;deriva dall&rsquo;aver ritenuto necessaria, una mostra che analizzi come le riverberazioni delle fratture che caratterizzano il tempo presente agiscono sul mondo dell&rsquo;arte. Ho citato il titolo usato da un poeta (Auden) definendo gli anni che viviamo come una &ldquo;age of anxiety&rdquo;. All&rsquo;ottimismo che scaturisce dalle conquiste scientifiche e tecniche corrisponde un forte senso di incertezza sulla nostra capacit&agrave; di comprendere quanto accade, di armonizzare il consenso, di effettuare scelte risolutive sui tanti problemi di natura umana e sociale che dominano il mondo. Si manifestano lacerazioni anche nei confronti delle utopie e degli sbocchi positivi che avevamo messo in campo negli anni passati (si pensi all&rsquo;Europa). L&rsquo;arte non pu&ograve; mai essere disgiunta dal tempo in cui viene creata. Guardare al presente vuol dire osservare la storia. Ed ecco che emerge la Biennale come luogo &ldquo;fatale&rdquo; per l&rsquo;accumulo di storia che essa porta con s&eacute;, nelle sue memorie documentate, nei suoi padiglioni, nello stratificarsi di avvenimenti che, tutti, ci appaiono oggi come un cumulo crescente di frammenti, proprio come quelli che spaventano l&rsquo;&ldquo;Angelus Novus&rdquo; di Paul Klee&raquo;. &nbsp;

 
L&rsquo;O.I.: Il titolo della&nbsp;56&ordf; Esposizione Internazionale d&rsquo;Arte &egrave; &ldquo;All the World&rsquo;s futures&rdquo;, un titolo che, rivolgendosi al futuro e alla storia, chiama in causa il possibile. Ci parli della necessit&agrave; di guardare al futuro. 
P.B.: &laquo;Passato, presente, futuro, dove comincia l&rsquo;uno e dove finisce l&rsquo;altro? A ben guardare il solo modo responsabile di vivere il presente &egrave; quello di traguardarlo osservandolo dal futuro. Esso ci pu&ograve; apparire esattamente come il passato appare nell&rsquo;&ldquo;Angelus Novus&rdquo; di Klee e, cio&egrave;, come un ammasso di rovine. Osservandolo possiamo trarre ispirazione per orientare le nostre azioni. In fin dei conti la nostra libert&agrave; sta nel poter avere un futuro desiderabile, altrimenti la sola libert&agrave; concessa risulterebbe quella di non dover necessariamente soccombere. Uno dei problemi principali della generazione di oggi sta nella difficolt&agrave; di individuare un futuro che qualcuno possa garantire. La soluzione sta nel cercarlo, non nel rinunciare, chiudendosi in bozzoli di indifferenza ed egoismo, ed &egrave; proprio il futuro che stiamo creando la vera essenza del presente&raquo;.

&laquo;Nella Mostra di quest&rsquo;anno vogliamo concentrarci sulle spinte e sulle sollecitazioni della storia e del tempo&raquo;, spiega&nbsp;

L&rsquo;O.I.: Lei ha parlato di questa Biennale come di un terzo capitolo, coerente e conclusivo, del percorso iniziato con Bice Curiger (2011), seguita da Massimiliano Gioni (2013). Oggi Okwui Enzewor ci indirizza verso un Parlamento delle Forme. In che modo questo percorso testimonia un&rsquo;evoluzione sociale e un approccio diverso al sapere, anche all&rsquo;interno del mondo dell&rsquo;arte? 
P.B.: &laquo;La scelta dei curatori &egrave; una precisa responsabilit&agrave; di chi governa la Biennale che, con queste scelte, ne delinea l&rsquo;indirizzo culturale. La parola chiave &egrave; &ldquo;ricerca&rdquo;, anzi meglio &ldquo;spirito di ricerca&rdquo;, cio&egrave; l&rsquo; incessante desiderio di sapere meglio e di pi&ugrave;, di avere intorno a s&eacute; le energie vitali del mondo dell&rsquo;arte e di offrire i risultati al pubblico. L&rsquo;arte contemporanea sollecita l&rsquo;approfondimento dei contenuti di una possibile estetica per meglio comprendere il fenomeno, i singoli artisti e i singoli lavori. Abbiamo orientato le scelte proprio sulla scia di questa esigenza. La Biennale Arte 2011 tratt&ograve; della percezione e della luce come fattore capace di dilatare le capacit&agrave; di comprensione di chi osserva l&rsquo;opera condividendone la sua vitalit&agrave;. La Biennale Arte 2013 analizz&ograve; gli impulsi interni che portano l&rsquo;uomo a farsi artista, e cio&egrave; a creare immagini come necessit&agrave; (utopia, ossessioni). Ora vogliamo concentrarci sulle spinte e sulle sollecitazioni della storia e del tempo&raquo;. &nbsp;

L&rsquo;O.I.: Nel suo intervento ha paragonato la Biennale a una &ldquo;mnemosyne warburghiana&rdquo; nella quale la memoria e la comprensione degli eventi sono come il risultato di un assemblaggio o montaggio d&rsquo;immagini. Quali evocherebbe guardando alla storia recente del nostro Paese? 
P.B.: &laquo;Affiancherei in un unico tableau la capacit&agrave; di tutela dei centri storici con l&rsquo;indifferenza e la volgarit&agrave; dei nuovi sviluppi sul territorio. Farei la foto di una donna e di un uomo italiani, ambedue ben vestiti e curati nella persona, davanti a una periferia di citt&agrave; dove si dimostra come la cura estrema posta nei confronti di se stessi sta all&rsquo;incuria verso il territorio che si abita. La intitolerei &ldquo;Belli a met&agrave;&rdquo;. Prenderei poi l&rsquo;&ldquo;affresco del buon governo&rdquo; e lo metterei come sfondo di un talk show televisivo, intitolandolo &ldquo;Un paese che sa di meritare di pi&ugrave; dalla storia e dalla sua intelligenza, ma non sempre sa come fare&rdquo;&raquo;. &nbsp; &nbsp;

Paolo Baratta

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